Cosa è
Uncommon stories?
Lorem ipsum dolor sit amet, consectetuer adipiscing elit. Aenean commodo ligula eget dolor. Aenean massa. Cum sociis natoque penatibus et magnis dis parturient montes, nascetur ridiculus mus. Donec quam felis, ultricies nec, pellentesque eu, pretium quis, sem. Nulla consequat massa quis enim. Donec pede justo, fringilla vel, aliquet nec, vulputate eget, arcu. In enim justo, rhoncus ut, imperdiet a, venenatis vitae, justo. Nullam dictum felis eu pede mollis pretium. Integer tincidunt. Cras dapibus. Vivamus elementum semper nisi. Aenean vulputate eleifend tellus. Aenean leo ligula, porttitor eu, consequat vitae, eleifend ac, enim. Aliquam lorem ante, dapibus in, viverra quis, feugiat a, tellus. Phasellus viverra nulla ut metus varius laoreet. Quisque rutrum. Aenean imperdiet
ULTIME NOTIZIE
La mattina dell’ultima giornata ci svegliamo con due sole certezze: dobbiamo percorrere poca strada e non dobbiamo preoccuparci di ottimizzare lo spazio nelle borse come al solito. Una volta arrivati infatti le svuoteremo un ultima volta per poi trasferire tutto il contenuto in borsoni più capienti.
Queste due considerazioni portano a una colazione lunghissima e alla peggiore organizzazione dei bagagli fino a quel momento: infiliamo più o meno a caso nelle borse tutto ciò che ci capita sottomano, il resto viene ridotto a una palla da legare al portapacchi con un numero imprecisato di elastici. Nel momento in cui dobbiamo partire la bici di Sio, già mediamente più carica delle nostre per via della tenda che sporge dal retro, è letteralmente una discarica: sopra a tenda e borse sono appese bottiglie di plastica vuote, vestiti e (per un motivo che tuttora ci sfugge) un sasso.
Partiamo tranquilli e rilassati, pensando che con un tempo del genere percorrere un cinquantina di chilometri sarà una questione da poco.
Il nostro piano, fin dall’inizio, è stato uno soltanto.
A prescindere dalle naturali variazioni di tempi e percorsi che avremmo deciso giorno per giorno l’obiettivo sarebbe rimasto uno: la Laguna Blu.
A meno di quaranta chilometri da Reykjavik, verso sud-ovest, si trova una meta obbligata per chiunque sia interessato alla vivace vita culturale e alla storia islandese: un centro termale con piscine all’aperto munito di bar centrale, in cui acquistare birre per sbronzarsi mentre si rimane a mollo nell’acqua calda. Ovviamente, dato che siamo sensibili intellettuali, ci è sempre sembrato scontata l’idea di terminare lì il nostro peregrinare in bici, un simbolico .punto al termine di un mese di pedalate controvento.
Una sorta di cimitero degli elefanti dove andare a spegnersi tra innumerevoli birre, solo con “ciccioni” al posto di “elefanti”.
Se pensate di poter pedalare in Islanda rimanendo asciutti, forse è il caso di ridimensionare un attimo le vostre aspettative.
Se c’è una cosa che l’Islanda ci tiene tantissimo a insegnarvi è che non bisogna MAI sentirsi sicuri. Che si parli del vento, della pioggia, del terreno difficile, della pendenza, non bisogna MAI pensare che il peggio sia alle spalle; nel momento stesso in cui crederete di essere al sicuro, l’Islanda sbucherà da dietro un angolo per urlarvi in faccia e scuotervi fortissimo. Premurosa e attenta come un pazzo psicotico.
Il mio definitivo divorzio dall’Islanda e dal suo clima che per necessità definirò “pazzerello” avviene la mattina in cui lasciamo Vik.
Poco distante da Gerði abbiamo il nostro primo incontro con gli iceberg.
Già dal campeggio in cui ci fermiamo per la notte è possibile vedere le propaggini del Vatnajökull, il più grande ghiacciaio islandese, che si estendono fino alla costa. Proseguendo per pochi chilometri si arriva a una delle mete più turistiche di tutta l’isola, la piccola baia di origine glaciale di Jökulsárlón.
È proprio per evitare il grosso dei turisti che viene deciso che la mattina sarà bene mettersi in marcia il prima possibile. Nell’unica mattina in cui avevo espresso il desiderio di prendercela con più calma. Sarà l’unica volta durante tutto il viaggio in cui Sio e Nick decideranno di darsi una mossa appena svegli.
Al mio naso l’odore di complotto si fa sempre più intenso.
Arrivando a Höfn notiamo con gioia che il circo dev’essere in città.
I dintorni di quello che sembra essere il campeggio sono infatti costellati da enormi carrozzoni che devono certamente ospitare clown e bestie esotiche.
Vi lascio immaginare il nostro disappunto quando ci accorgiamo che i numerosi veicoli sono invece roulotte, comunque colme di clown e bestie esotiche.
/hashtag sottile satira di classe tra viaggiatori.
Il nostro arrivo a Egilsstaðir è trionfale.
Arriviamo sicuri e boriosi, convinti che il peggio sia ormai alle nostre spalle. Ci riposiamo un giorno intero mentre sistemiamo il lavoro arretrato e ci occupiamo di fare provviste. Quando arriva il momento di ripartire siamo rilassati e certi che nulla ormai possa scalfirci.
Davanti a noi, la strada che dobbiamo percorrere, se la ride dall’alto dei suoi due picchi di sterrato, entrambi intorno ai cinquecento metri.
Noi ridiamo a nostra volta di ciò che ci aspetta, come dei perfetti idioti.
Dopo la nostra visita ai bucolici dintorni di Mývatn abbiamo iniziato a salire di quota, questa volta non per scalare e superare una cima ma per raggiungere il cuore vero dell’Islanda, le highlands.
Con highlands si intende il grosso del territorio islandese, tutto l’entroterra dell’isola è di fatto una sorta di deserto vulcanico con elevazioni che vanno mediamente dai quattrocento ai cinquecento metri; la vegetazione è quasi del tutto assente se non per qualche zona in prossimità dell’acqua macchiata da tappeti di erba fine e bassa.
Sembra che abbia copiato tutto dalla pagina di Wikipedia ma abbiamo toccato con mano la cosa e vi posso garantire che ormai conosciamo le highlands come le nostre tasche, hashtag forse.
In caso ve lo stiate chiedendo: sì, siamo riusciti ad arrivare ad Akureyri senza volare via come grasse Mary Poppins.
L’Islanda però ci tiene a ribadire i concetti, e dopo aver cercato di spazzare via tenda e contenuto per una notte intera decide che anche la giornata seguente dev’essere un momento da ricordare.
Possiamo finalmente dire di essere ciclisti battezzati dall’Islanda.
Gli ultimi giorni ci hanno offerto la compilation completa di: pioggia, vento fortissimo in faccia, freddo, salite verticali.
Ora possiamo finalmente vantarci di avere conquistato i chilometri alle nostre spalle, ma la verità è che durante l’impresa eravamo pallide ombre piagnucolanti di noi stessi.
Niente come il vento è in grado di spezzare lo spirito di un ciclista, specialmente quando il ciclista in questione parte già con pochissima voglia di intraprendere una scalata (sì, sto parlando di me stesso).
Ok, ci siamo. È il momento.
Devo parlare della Groenlandia.
A un mese dal nostro rientro la cosa costituisce un piccolo problema per una semplicissima ragione: i dieci giorni che abbiamo trascorso su suolo groenlandese (groenlandico? groenlandino?) sono stati forse i più incredibili e inaspettati di tutto il viaggio.
Fino dalla partenza l’idea che avevamo di Svalbard e Islanda era assolutamente frammentaria e approssimativa, ma se non altro avevamo una vaga idea di cosa poterci aspettare.
Della Groenlandia invece non sapevamo quasi nulla.
Non siamo rimasti delusi.